La frenesia della vita odierna coinvolge numerosi aspetti della nostra quotidianità: pensiamo a quanto, ad esempio, negli ultimi anni si siano diffusi i fast food per rispondere alle esigenze di una clientela che evita di prendersi del tempo persino per mangiare. Sicuramente l’ipertecnologizzazione della società ha contribuito alla logica del “tutto e subito”, grazie al prepotente avvento degli smartphone. Un semplice dito sullo schermo del nostro telefono, oggi, può portarci ovunque in qualsiasi momento, e così una buona fetta di mercato si è adattata prontamente a questa dinamica. Poco sopra parlavamo del cibo, ma lo stesso discorso può essere fatto anche per il mondo della moda: da qualche anno, infatti, assistiamo all’imperversare di quella che in molti hanno definito Fast Fashion.
Il significato di Fast Fashion
A dirla tutta, il Fast Fashion nasce ben prima della digitalizzazione, negli anni ’80, per esplodere poi definitivamente dal 2000 in poi. In quel periodo, le aziende di moda hanno iniziato a produrre un numero sempre maggiore di collezioni l’anno a costi molto bassi. Poi, l’approdo negli anni ’20, con l’esplosione degli shop online, ha segnato la definitiva consacrazione della “moda veloce”. Questo modello di business si basa essenzialmente sull’idea che un capo di abbigliamento non rappresenti un “bene di uso”, bensì un “bene di consumo” (anzi, di “sovraconsumo”) nei confronti del quale il senso di affezione sta diminuendo sempre di più. Il basso costo del prodotto, unito alla possibilità dei “resi” garantita dallo shopping online, fanno sì che il consumatore si abitui ad acquistare sempre più di ciò di cui realmente necessita. Il senso del valore attribuito a un indumento, così, diminuisce drasticamente, in virtù della possibilità di procurarsi in maniera continuativa – e compulsiva – nuovi capi, apparentemente più necessari dei precedenti.
Perché il Fast Fashion non è sostenibile
Viene facile comprendere, quindi, come il Fast Fashion risponda a un modello di business assolutamente non sostenibile.
Innanzitutto, parliamo del motivo per cui i costi dei prodotti sono così bassi: i materiali sono di bassa qualità, spesso sintetici, ma questo non è l’unico motivo. Il principale, e certamente ancora peggiore, è legato al fatto che la produzione – rapidissima, oltre che a basso costo – sia sempre collocata in paesi dove non vigono rigide norme contro lo sfruttamento del lavoro, e che quindi permettono lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo: secondo statistiche della non-profit Remake, ogni giorno 75 milioni di persone producono vestiti per noi e l’80% è costituito da donne tra i 18 e i 24 anni.
In molti, a questo proposito, ricorderanno il drammatico evento accaduto in Bangladesh il 24 aprile del 2013: quel giorno crollò il Rana Plaza, un grande edificio di 8 piani situato in Bangladesh, che ospitava appartamenti, numerosi negozi e, tra le attività, anche diversi laboratori tessili che lavoravano per alcune tra le più note catene del Fast Fashion. Prima del crollo erano state rilevate diverse crepe che avevano comportato la chiusura di tutte le attività tranne, casualmente, quelle tessili. Il bilancio fu drammatico: 1129 vittime e 2515 feriti, il cui unico risvolto positivo è stato quello di accendere i riflettori proprio sul mondo del Fast Fashion.
Da quel momento, infatti, si è iniziato a fare luce anche su un altro aspetto dannoso: quello dell’inquinamento ambientale. L’industria della moda è infatti responsabile di una massa enorme di rifiuti idrici mondiali e del 10% delle emissioni di anidride carbonica a causa del largo impiego di pesticidi e insetticidi nelle coltivazioni del cotone utilizzato per produrre abbigliamento di fast fashion. Inoltre è importante ricordare che la velocità con cui viene prodotto questo tipo di abbigliamento determina il fatto che sempre più persone producano una quantità esorbitante di rifiuti tessili. Ricordiamo, infine, l’effetto deleterio dell’uso di coloranti economici tossici che, a causa dei lavaggi, rendono l’industria della moda il settore che inquina maggiormente le acque pulite, dopo l’agricoltura.
Slow Fashion: il suo significato e l’approccio sostenibile
Essenzialmente, per Slow Fashion intendiamo l’esatto contrario di Fast Fashion. Con questo termine, infatti, si fa riferimento a un modello di mercato basato su un approccio sostenibile sia per ciò che concerne la produzione che il consumo (o meglio, l’uso).
Per ciò che concerne i materiali, viene attribuita importanza alla qualità contemplando l’utilizzo di materia prima ecologica e, a volte, addirittura riciclata. Ne consegue che i capi siano più durevoli e di fattura decisamente superiore.
Inoltre, i processi di produzione salvaguardano l’ambiente: ad esempio, vengono impiegati sistemi chiusi per l’acqua, così da poterla riutilizzare e soprattutto evitare che i colori inquinino disperdendosi nelle acque di scarico.
Infine, aspetto certamente non secondario, le produzioni vengono collocate a livello locale e curate attraverso la sapienza di artigiani che, oltre a percepire un salario dignitoso, portano la loro sapiente manodopera nella lavorazione di prodotti che diventano, così, unici.
Per fortuna lo Slow Fashion sta ottenendo sempre più consenso e attenzione da parte dei consumatori, anche grazie ad una sempre crescente consapevolezza dell’impatto dell’industria del fashion sull’ambiente.
Per ciò che concerne i marchi, è importante ricordare che sono sempre di più le etichette che sembrano aver compreso che l’abbigliamento prodotto con determinati standard è, alla lunga, preferibile, perché non perde le sue caratteristiche dopo pochi lavaggi e qualche utilizzo. Si tratta, peraltro, di capi dal design meno trendy e che quindi non subiscono le inevitabili oscillazioni della moda: articoli creati per durare, e che quindi determinano un contenimento di quell’approccio acritico e bulimico all’acquisto.
Desigknit: quando lo slow fashion incontra la personalizzazione
Desigknit, oltre a garantirti la possibilità di creare il tuo capo di alta maglieria secondo le tue specifiche esigenze, rappresenta un brand che ha abbracciato in pieno un approccio Slow Fashion.
Per ciò che concerne i materiali, il puro cashmere e il cashmere seta provengono dalle Marche e dal più noto produttore mondiale di questo nobile filato, mentre la lana Merino extrafine viene acquistata nel Biellese. La produzione, poi, affidata alle capacità manuali e alle competenze dei migliori artigiani, è collocata tra Parma, Reggio Emilia e Carpi, zone che da tempo rappresentano un distretto d’eccellenza mondiale per la produzione di maglieria.